La lettura dei dati prodotti dalle organizzazioni di statistica nazionali ed internazionali è sempre interessante. A prescindere dallo scopo di queste organizzazioni e dalla loro lettura della realtà, si deve dire che sono estremamente precise nel riportare i dati su cui investigano e i dati hanno la testa dura. Nelle scorse settimane abbiamo già riportato i dati Inapp sul gender wage gap, ferocemente in crescita nel nostro paese. Oggi i riflettori dell’istituto si sono accesi sul livello d’istruzione di lavoratrici e lavoratori in Italia.
Lavoratrici e lavoratori che non si sono mai iscritti alla scuola secondaria superiore sono 11,7 milioni, quattro milioni si sono fermati; cinque milioni hanno intrapreso percorsi universitari senza portarli a termine.
In totale il 41% della popolazione analizzata (corrispondente a quasi 18 milioni, un terzo degli e delle abitanti del paese) ha conseguito al massimo la licenza media e i diplomati sono poco di più, mentre i laureati e laureate arrivano a non più di 6 milioni e poco più di un milione ha ottenuto un master o un dottorato di ricerca.
La causa evidente e superficiale è il disinvestimento in corso da decenni nella scuola pubblica e nell’aver riconsegnato (dopo la parentesi degli anni Settanta e Ottanta) la prospettiva dell’istruzione superiore e universitaria alle classi ricche della società. Oggi, dividendo la popolazione italiana in sestili sulla base del reddito, il sestile più alto ha 62 volte più probabilità di produrre un o una laureata del sestile con il reddito più basso.
La formazione sulla base del reddito ha delle evidenti ricadute sul reddito delle generazioni future e prefigura uno scenario di capitalismo neofeudale dove le differenze di reddito e posizione sociale diventano sempre più ereditarie ed intoccabili. Anche quel poco di ascensore sociale funzionante sulla base dell’espansione del lavoro industriale e delle rivendicazioni operaie di mezzo secolo fa è stato definitivamente affossato.
Fino a qui, nulla che non sia stato detto finora.
Le cause profonde di questa involuzione sociale che sta producendo una platea di lavoratrici e lavoratori con redditi sempre più bassi e istruzione ancora minore, è da ricercarsi in una scelta vera e propria del capitalismo italiano. Intendiamoci, quando parlo di scelta non sto parlando di decisioni prese a tavolino da gruppi di congiurati a difesa della ricchezza oligarchica. Solo chi assume gli avvenimenti storici e sociali come il risultato di complotti decisi da entità malvagie può manifestare scenari di questo tipo.
Ritengo invece che, all’interno di uno scenario dato, i decisori politici ed economici del paese abbiano preso decisioni le cui conseguenze non possono che essere quelle denunciate dal rapporto Inapp.
In particolare la scelta di rilanciare il capitalismo italiano messo in crisi negli anni Settanta, riducendo l’occupazione industriale nelle grandi imprese e polverizzando la produzione sul territorio (nessuno ricorda “piccolo è bello”?), in modo da contenere le rivendicazioni spargendo lavoratrici e lavoratori in provincia e lontano dalle grandi concentrazioni operaie, ha permesso una ripresa della redditività delle imprese basata su salari bassi e con grandi componenti variabili, ma ha avuto la conseguenza di abbattere la produttività sia complessiva che per addetto. Le piccole e medie imprese, fatto salvo il caso virtuoso delle “corazzate tascabili” (circa il 15% del totale) mediamente non hanno la solidità finanziaria che permette loro di lavorare sulla produttività aumentando la componente tecnologica e investendo il necessario in innovazioni sia di prodotto che di processo.
il risultato è stato un sistema industriale ancora corposo ma farraginoso, arretrato e competitivo unicamente per il basso costo della manodopera. L’ulteriore conseguenza è stata quella di chiudere a poco a poco i campioni industriali nazionali e consegnare alle filiere estere (in primo luogo quelle tedesche) una consistente parte dello stesso sistema.
Al termine (o quasi) di questo processo l’economia italiana è evidentemente entrata nel novero delle semi periferie del sistema mondiale. Accanto a vere e proprie isole di modernità di alto livello, la parte maggioritaria dell’economia del paese è orientata a un basso livello salariale e a un bassissimo livello d’istruzione.
L’insopportabile ritornello per cui l’Italia dovrebbe puntare a diventare il principale hub del turismo europeo è la demenziale rappresentazione plastica di un paese che impiega la maggior parte delle proprie lavoratrici e lavoratori in lavori a basso salario, spesso stagionali o comunque temporanei e soprattutto che non hanno bisogno di una forte e profonda istruzione per essere svolti.
Il declino scolastico e l’abbattimento della spesa in istruzione sono la diretta conseguenza di queste scelte; la scuola italiana non è un’istituzione appesa nel vuoto ma direttamente funzionale agli schemi di riproduzione della società in cui si trova. Non a caso è una scuola che funziona bene sul piano dell’istruzione con coloro che non hanno problemi sociali e che provengono da famiglie con una buona o almeno accettabile posizione di reddito e che naturalmente non sono straniere; al contrario funziona malissimo con ragazze e ragazzi provenienti da famiglie con difficoltà economiche o che hanno un’origine straniera. Con questi e queste ultime è profondamente espulsiva: basta confrontare le percentuali di abbandono scolastico nei licei (attorno al 3,5%) con quelle degli istituti tecnici (attorno all’8%) e quelle dei professionali (superiori all’11%). Utile anche confrontare le percentuali di abbandono scolastico di figli e figlie di italiani (circa il 4%) e quelle dei ragazzi e ragazze di origine straniera (superiori al 12%).
Una selezione di classe dunque, la cui conseguenza è quella di produrre una forza lavoro con un’istruzione fortemente limitata e con una difficoltà sempre maggiore a comprendere compiutamente un articolo di giornale e destinata al rafforzamento dell’esercito del lavoro povero, turistico o logistico, regolare o irregolare che sia.
In questo quadro risulta patetico il tentativo del sindacalismo di base nella scuola (cui anche lo scrivente appartiene) di rafforzare la presa in categoria costruendo piattaforme assolutamente condivisibili ma mancanti della caratteristica principale per essere attrattive: la realizzabilità sia pure all’interno di un quadro che dovrebbe essere necessariamente più agitato di quello attuale.
La svalutazione costante del personale docente della scuola è infatti la conseguenza della svalutazione costante del prodotto offerto dalle lavoratrici e dai lavoratori della scuola; se la lavoratrice od il lavoratore che deve essere prodotto dal sistema di istruzione è svalutato in partenza e non occorre che sia effettivamente istruito a livello superiore (se non in settori molto specifici dell’istruzione), la conseguenza è la svalutazione dei salari di chi quella particolare merce costituita dalle e dagli studenti produce.
La conseguenza che si dovrebbe trarre da queste considerazioni è quella per cui salari e condizioni di lavoro del personale della scuola sono legati a doppio filo con i salari di tutta la classe lavoratrice e che il ripiegamento corporativo, tipico in tutte le categorie delle situazioni di forte difficoltà (quando non diventa ripiegamento aziendale o addirittura individuale), non può produrre nessun effetto positivo.
In questi anni abbiamo assistito invece al rafforzarsi della tendenza alla difesa corporativa ed al rifiuto dell’intercategorialità da parte del sindacalismo di base operante nelle scuole. In parte per difficoltà oggettive al collegamento con altre categorie, in parte per fiducia (anche ideologica) nel bastare a sé. L’illusione di poter mettere in moto una stagione di lotta salariale che prescinda in tutto o in parte dalle condizioni generali del lavoro nel paese.
Oggi la necessaria ripresa di un lavoro sindacale nelle scuole non può che partire da un presupposto apparentemente astratto ma in realtà concretissimo: la critica radicale all’attuale modello d’istruzione finalizzato alla riproduzione del lavoro povero e a bassa alfabetizzazione.
Solo un’alleanza vera con quei settori di classe lavoratrice che vengono sempre più espulsi dall’istruzione per essere collocati nella periferia del mercato del lavoro può essere la base per un ritorno della voce delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola.
Stefano Capello